sabato 18 dicembre 2010

RECENSIONE di Maurizio Schoepflin

GIUSEPPE BRIENZA
Unità senza identità
Edizioni Solfanelli
2a edizione
Chieti 2010
pagg. 72 - € 7,00

Questo documentato e sintetico saggio, giunto in pochi mesi alla sua seconda edizione, ha il merito di evitare lo stile “pamphlettistico” che troppo spesso caratterizza la pubblicistica sul Risorgimento, rendendo però giustizia ad alcuni dei suoi mancati, sebbene meritevoli di memoria, “protagonisti”.
Innanzitutto Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) che, con lo spessore della sua statura intellettuale, aveva teorizzato fin dalla prima metà dell'Ottocento una unione politica dei diversi stati della Penisola che avessero mantenuto ciascuno la propria sovranità. Una sorta di Unione italiana che potrebbe forse assomigliare alla novecentesca Unione europea, almeno come la si è concepita fino agli anni Ottanta. Secondo il filosofo roveretano, il massimo bisogno dell'Italia era quello di essere forte nel suo tutto e nelle sue parti, poiché altrimenti non avrebbe potuto essere una ed indipendente. Nell'Italia unita federale, secondo Rosmini, tutto doveva essere funzionale allo sviluppo della persona e della famiglia, che venivano prima della stessa società e naturalmente dello Stato, in un intreccio di competenze basato sulla sussidiarietà. «L’esatto opposto - scrive Brienza - della concezione che si era imposta, invece, nella Rivoluzione francese, nella quale i diritti della persona venivano assorbiti da quelli del "cittadino", funzionale allo Stato» (pag. 20).
In secondo luogo Clemente Solaro della Margarita (1792-1869), anima critica di una unità d’Italia realizzata da una dinastia, quella dei Savoia, per motivi di ambizione dinastica e, quindi, fatta con l'occupazione e l'annessione al Piemonte delle altre entità politiche. I diversi Stati in cui si divideva il territorio italiano, insomma, scrive giustamente l'Autore, «furono messi insieme senza troppa cura per le differenze che pure c’erano, creando un’omogeneizzazione artificiosa rifiutata dal popolo stesso e senza che vi fossero alle spalle una solidarietà e una coscienza nazionali» (pag. 32).
È senz'altro questo il punto da cui (ri)partire per una valutazione serena del processo unitario: il fatto che già nel "triennio giacobino" del 1796-1799 gli Italiani reagissero in armi, in modo naturale e concorde, contro l'attacco alla loro bimillenaria identità religiosa e a sostegno del Papa, dando vita alla c.d. Insorgenza popolare, «non vuol dire che fossero meno italiani dei successivi artefici dei vari moti e spedizioni "patriottiche" che, non fondandosi sulla "nazionalità spontanea", non potevano certo fondare "naturalmente" una unità fra gli italiani» (pag. 8).
Oggetto precipuo di questo studio è poi la realtà giuridico-istituzionale osservata da un punto di vista storico-culturale e illuminata dalla lezione autorevole di studiosi quali Gianfranco Miglio e Roberto Ruffilli. Sei sono le "ombre" che l'Autore rintraccia nell'attuazione dell'unità d'Italia: il centralismo oppressivo, l'annessionismo ideologico e pseudo-plebiscitario, i ripetuti interventi stranieri portatori di tendenze protestanti e massoniche (vedi Inghilterra), a loro volta causa del mancato riconoscimento da parte di altri Paesi europei, la guerra alla Chiesa e all'identità religiosa del popolo italiano e la "piemontesizzazione" autoritaria dello Stato sabaudo.
L'Autore sostiene che, se a centocinquant'anni dalla sua realizzazione l'unità territoriale è ormai anzitutto un fatto, l'unificazione delle idee e dei sentimenti del popolo tutto che compone la penisola è ancora ben lungi dal realizzarsi. Brienza appare tuttavia convinto che ciò che egli chiama "nazionalità spontanea", nonostante tutto, esiste ancora, e che il prenderne atto dovrebbe far parte di una ordinaria realpolitik.

Maurizio Schoepflin

in
"La Società. Studi, ricerche, documentazione sulla dottrina sociale della Chiesa"
anno XX, n. 4-5, Verona luglio-ottobre 2010, pp. 724-725

giovedì 10 giugno 2010

Il “Risorgimento” ha diviso o unito il Paese?

Intervista al giornalista e saggista cattolico, Giuseppe Brienza

di Antonio Gaspari


ROMA, giovedì, 10 giugno 2010 (ZENIT.org).- E’ in atto in Italia un dibattito molto acceso circa le celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia (1861-2011).

A questo proposito Giuseppe Brienza, giornalista cattolico, saggista e corrispondente dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, ha pubblicato sul tema un saggio: “Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani” arrivato proprio in queste settimane alla sua seconda edizione (Edizioni Solfanelli, Chieti 2010, pp. 74).

Per capire se il Risorgimento sia stato il frutto maturo del popolo italiano, quanto abbia influito il desiderio di potere dei Savoia e come abbia reagito la Chiesa alla guerra che gli è stata scatenata contro, ZENIT ha intervistato Giuseppe Brienza.

Che cosa intende per unità senza identità? Qual è la tesi che sta alla base del suo libro?

Brienza: La tesi alla base del mio libro è che nel 1861-1870 l’Italia sia stata unificata politicamente ma non unita spiritualmente. Il concetto di unità, infatti, parte dal presupposto che debbano essere conciliate le differenze e che si è uniti quando si trova un obiettivo comune che fa vincere il naturale e, spesso, legittimo particolarismo. L’unità d’Italia ebbe, come dice la parola, l’obiettivo «comune» di formare una entità che legasse insieme le diverse anime di una ‘nazione’. A questa unificazione del Paese nell’Ottocento si giunse però in modo tutt’altro che «naturale» e l’imposizione di un “abito” inadeguato causò al corpo sociale i gravi disagi di cui soffre tuttora e disperse una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali della nazione.


Nel saggio lei sostiene che “il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani”. Può illustrarci il suo punto di vista e quali sono i fatti storici che sostengono la sua tesi?

Brienza: Con il 1861 entra in scena lo Stato “moderno” che diventerà il principale artefice del progetto verso l’instaurazione di un nuovo dis-ordine mondiale, secolarizzato, cosmopolita e sempre meno “a misura d’uomo” e di famiglia. In Italia, nel giro di pochi anni, alla minoranza monarchica, liberale e democratica che ha “fatto” il Risorgimento, erigendo uno Stato comune, assumendo il controllo di tutti gli organi politici, dell’amministrazione, dell’esercito e della scuola, è addebitabile la responsabilità di aver preferito costruire dopo aver sradicato e demolito piuttosto che costruire attingendo a quanto già esisteva, anche se allo stato di frammento.
Cancellerà quindi d’ufficio secolari organismi politici, appropriandosi delle loro risorse finanziarie; getterà alle ortiche i loro ordinamenti e codici di leggi; esautorerà completamente — tranne forse i quadri militari più elevati — i loro dirigenti; destinerà all’esilio i loro sovrani, ancorché rassegnati e poco pericolosi. L’estensione a tutta la Penisola di ordinamenti e sistemi giuridici uniformi — quelli sabaudi —, con la conseguente fine delle autonomie territoriali e dei sistemi di autogoverno, così come l’accentramento totale dell’amministrazione, che avrà il suo simbolo nella figura del prefetto, creata a suo tempo a suo uso da Napoleone, sono stati percepiti e accolti con grande difficoltà da una parte allora minoritaria ma significativa culturalmente della classe dirigente italiana.
All’unificazione si giunse pertanto in modo tutt’altro che “naturale” e l’imposizione di un abito inadeguato causò e ancora causa al corpo sociale i gravi disagi di cui soffre tuttora disperdendo una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali della nazione.


Alcuni studiosi sostengono che esistesse un progetto cattolico, di cui il Pontefice era promotore, per realizzare un'Italia unita in una federazione di Stati. Una sorta di Risorgimento cattolico. Qual è il suo parere in proposito?

Brienza: Il mio parere è che il progetto ci fu, ma si scontrava con le reali mire del “partito risorgimentale”, d’ispirazione libral-massonico, coniugato con le ambizioni espansionistiche sabaude, e fu quindi accantonato almeno dal 1848. Fu Antonio Rosmini che, con lo spessore della sua statura intellettuale, aveva teorizzato una unione politica dei diversi stati della Penisola che avessero mantenuto ciascuno la propria sovranità. Una sorta di Unione italiana che potrebbe forse assomigliare alla novecentesca Unione europea, almeno come la si è concepita fino agli anni Ottanta e non quindi il “super-stato” voluto poi dai socialisti e dagli eurocrati di Bruxelles.


Il cardinale Angelo Bagnasco, pur riconoscendo i torti fatti alla Chiesa cattolica dalle truppe savoiarde, ha sostenuto che “l'unità del Paese resta una conquista e un ancoraggio irrinunciabili e quindi ogni auspicabile riforma condivisa, a partire da quella federalista, per essere un approdo ragionevole, e dovrà storicizzare il vincolo unitario e coerentemente farlo evolvere per il meglio di tutti”. Che cosa ne pensa?

Brienza: La mia opinione al riguardo è perfettamente in linea con quanto sostenuto dall’onorevole Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno, nella lettera scritta al direttore del Corriere della Sera, che ha pubblicato il 16 febbraio scorso. “Storicizzare il vincolo unitario” non deve significare la rinuncia a sostenere e documentare la constatazione che l’Italia non nasce nel 1861, e che nei secoli antecedenti il “Risorgimento” vi era una "nazione spontanea" (per riprendere la felice espressione di Mario Albertini), che aveva una comune identità, fondata su una comune religione, su principi e cultura, anche politica, sostanzialmente omogenei, e su una articolazione sociale ricca e variegata, in città dall’antica tradizione, più che in regioni. “Sostenere questo – ha scritto Mantovano - non vuole dire promuovere ‘operazioni nostalgia’, né attentare all’Unità nazionale: il rispetto e la lealtà per la nazione, per come si è formata e consolidata, per i suoi simboli, per i doveri ai quali chiama, per i sacrifici che esige, sarebbero traditi dal rifiuto di conoscere o di far conoscere le modalità di formazione dello Stato unitario”.


Si può dire che nonostante gli evidenti danni subiti dalla Chiesa e dal popolo cattolico, l’unità d’Italia fosse un evento inevitabile e necessario?

Brienza: Non credo che l’unificazione politica del Paese, come di fatto realizzata, sia stata un evento necessario e, per quanto riguarda l’inevitabilità, essa è stata inevitabile come è stata inevitabile la diffusione del moderno secolarismo. Dal punto di vista socio-culturale, infatti, il “Risorgimento” non fa che completare quel processo di sostituzione alla cultura tradizionale dei popoli di tradizione cristiana di un diverso abito di pensiero, improntato alle filosofie politiche scaturite dalla svolta antropologica del pensiero occidentale con Cartesio e dal libertinismo seicentesco. L’effetto più decisivo di tale operazione è stata la riduzione dell’influsso del cattolicesimo sulla cultura e sugli statuti dei popoli e delle comunità, nonché la sua rimozione o emarginazione nella vita pratica di fasce sempre più ampie della popolazione.


http://www.zenit.org/article-22811?l=italian

http://www.edizionisolfanelli.it/unitasenzaidentita.htm

sabato 5 giugno 2010

RECENSIONE di Omar Ebrahime su TotusTuus.it

Il Risorgimento, ovvero «la Rivoluzione italiana, […] versione nostrana ottocentesca della sovversione dell’ancien régime, avvenuta in conformità ai ‘principi del 1789’» (pag. 5) rappresenta, da un secolo e mezzo, una vera e propria ‘chiave di lettura’ della nostra storia politica unitaria, con pesanti ricadute in termini d’identità civica e culturale. Il saggio, sinteticamente ma efficacemente (vedi comunque la rassegna bibliografica selezionata “sul ‘Risorgimento’ o ‘Rivoluzione italiana’ 1999-2008” che riporta alle pagg. 63-65) presenta in tal senso l’ambizioso obiettivo di contribuire all’edificazione di una memoria comune, muovendo dall’affermazione del fenomeno storico-sociale spesso misconosciuto dell’’Insorgenza’, come manifestazione ‘vulcanica’ della pre-esistenza di una nazione italiana al processo della sua ‘Unità politica’. L’Insorgenza, che rappresenta la risposta degli Italiani alla crisi prodotta dal cambiamento portato dalla prima esperienza di «modernità politica» fatta dai popoli della Penisola fra il 1796 e il 1815 segna infatti secondo l’Autore «la prima manifestazione di un idem sentire degli italiani» (pag. 7). E’ senz’altro questo il punto da cui (ri)partire per una valutazione serena del processo unitario: il fatto che già nel ‘triennio giacobino’ del 1796-1799 gli italiani reagissero in armi, in modo naturale e concorde, contro l’attacco alla loro bimillenaria identità religiosa e a sostegno del Papa, «non vuol dire che fossero meno italiani dei successivi artefici dei vari moti e spedizioni ‘patriottiche’ che, non fondandosi sulla ‘nazionalità spontanea’, non potevano certo fondare ‘naturalmente’ una unità fra gli italiani» (pag. 8). Leggendo tanta pubblicistica di questi anni sembrerebbe invece il contrario e questa squalifica a oltranza intellettuale, oltre che morale e civile, dei vinti pare davvero fuori luogo. Contro la leggenda rosa negli anni recenti hanno già scritto pagine importanti Autori come Ernesto Galli della Loggia o Emilio Gentile, a cui infatti Brienza si ricollega aggiungendo un’analisi delle criticità istituzionali e amministrative palesate dal neo Stato unitario del 1861 che, non di rado, mutatis mutandis, giungono fino al presente seguendo un filo rosso senza soluzione di continuità.



Oggetto di studio vero nomine è quindi la realtà amministrativa osservata da un punto di vista storico-giuridico e illuminata dalla lezione autorevole di studiosi quali Gianfranco Miglio (1918-2001) e Roberto Ruffilli (1937-1988). Sei sono le ‘ombre’ che l’Autore rintraccia nell’attuazione dell’unità d’Italia: il centralismo oppressivo, l’annessionismo ideologico e pseudo-plebiscitario, i ripetuti interventi stranieri portatori di tendenze protestanti e massoniche (vedi Inghilterra), a loro volta causa del mancato riconoscimento da parte di altri Paesi europei, la guerra alla Chiesa e all’identità religiosa del popolo italiano e la ‘piemontesizzazione’ autoritaria dello Stato sabaudo. Di particolare interesse in questo ambito è naturalmente l’aspetto marcatamente anti-cattolico della rivoluzione ovvero il tentativo, auspicato e appoggiato da «protestanti e massoni di tutto il mondo» (pag. 12) di imporre anche in Italia le conseguenze della Riforma protestante «che si ebbero in centro e nord Europa, innanzitutto la soppressione degli ordini religiosi e delle organizzazioni assistenziali cattoliche (le benemerite ‘Opere Pie’)» (pag. 13). Opportunamente l’Autore ricorda, sulla scorta degli studi di Vittorio Messori, come «dietro ai bersaglieri entrati dalla breccia di Porta Pia a Roma il 20 settembre 1870, seguirono decine di ‘col-portori’, cioè venditori ambulanti di bibbie protestanti. Il primo ad entrare in questo agguerrito drappello fu addirittura un portatore di carretto tirato da un cane spregiativamente chiamato ‘Pio nono’» (pag. 39). Sono d’altronde ormai noti i legami, in parte col protestantesimo e in parte con le logge massoniche internazionali, che attraversano le varie biografie degli ‘eroi’ dell’unità d’Italia: se Giuseppe Garibaldi diventerà Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia a unificazione realizzata, Giuseppe Mazzini fonderà a Londra l’associazione Friends of Italy proprio in reazione alla restaurazione della gerarchia cattolica in Inghilterra operata da parte di Pio IX nel 1850. Non è quindi un caso che la stessa Gran Bretagna sarà la prima grande potenza a riconoscere il neonato Regno d’Italia e che proprio da lì arriveranno i finanziamenti più cospicui per le spedizioni risorgimentali dei garibaldini e le loro marce su Roma.
Per molti aspetti il cd. Risorgimento si rivelò infatti una vera e propria «guerra d’aggressione contro la Chiesa» (pag. 43), capeggiata da un’élite laicista che sposando la storica accusa di Niccolò Machiavelli (1469-1527) imputava all’influenza del cattolicesimo papista la mancata unificazione italiana: «tale accusa fu ripresa dalla leadership […] del Risorgimento ed estremizzata fino alla negazione di quell’universalità che faceva della Chiesa l’erede di Roma e della sua concezione della ‘civitas’ capace di tenere insieme l’unità e le diversità» (pag. 43). La politica del Regno di Sardegna nell’Ottocento si caratterizzerà infatti più volte per i suoi tratti manifestamente ostili al sentire religioso delle popolazioni italiane scatenando la reazione autorevole de La Civiltà Cattolica che fin dalla metà del secolo metteva in guardia i fedeli «sull’impossibilità di diventare seguaci delle nuove idee» (pag. 46). L’Autore osserva inoltre che già nel 1854 il governo Cavour-Rattazzi aveva presentato un aggressivo progetto di legge contro gli ordini mendicanti e contemplativi accusati di essere «inutili quindi dannosi» (cit. a pag. 46). Se da una parte questa proposta serviva a rassicurare i governi europei liberal-massonici sulle mire anti-cattoliche del primo ministro piemontese, dall’altra la legge finì col togliere concretamente personalità giuridica a ben 34 ordini religiosi «sopprimendo 331 case religiose con circa 4.500 religiosi, più della metà di quelli esistenti in Piemonte. Centinaia di edifici e opere d’arte di inestimabile valore, più di 2 milioni e mezzo di ettari di terra, vennero espropriati» (pag. 46). Compiuta l’unificazione nel 1861, la politica di secolarizzazione verrà successivamente riproposta su scala nazionale «prima con le leggi del 1867 di soppressione degli ordini e delle congregazioni religiose di vita contemplativa, con incameramento dei loro patrimoni, poi con la sistemazione unilaterale della ‘questione romana’ con la legge delle guarentigie del 1870» (pag. 47). E, ancora, tra le ‘ombre’ del Risorgimento andrebbero ricordate anche le ‘gesta’ delle camice rosse garibaldine passate alla storia come eroici ‘liberatori’ (?) dell’Italia, ma non altrettanto per la loro depredazione di conventi e la cacciata di religiosi e religiose dai loro Istituti.
Se questi tristi fatti sono ormai a tutti gli effetti storia passata su cui ben poco si può fare (se non divulgarli il più possibile nelle sedi opportune per favorire una più corretta e critica memoria degli eventi in oggetto), significativa è però la conclusione che l’Autore trae sulle ricadute ben più attuali dello spirito risorgimentale, soprattutto se si considera la nascente Cristofobia che invade con sempre più ostilità gli spazi pubblici del nostro Paese: «se il Risorgimento fosse stato solo contrario all’estensione della sovranità territoriale dello Stato pontificio, un compromesso si sarebbe trovato. In realtà esso […] fin dal 1848 fu decisamente anticlericale ed anticattolico, rifiutando ‘in toto’ la tradizione religiosa dell’Italia, per costruire la ‘terza Roma’ del positivismo e dello scientismo, idealmente ricollegata all’antica Roma pagana. L’obiettivo era quello di sovvertire la Chiesa, indicata da alcuni come vecchio cancro, e sradicare il Cattolicesimo dall’Italia, progetto che ha una continuità nelle forze laiciste che, dal secondo dopoguerra, si sono di volta in volta passate il testimone. Anche il ritorno nel dibattito politico nazionale di questi ultimi tempi ad atteggiamenti radicalmente anticlericali (l’anticlericalismo è sempre il preludio di ogni forma di anticristianesimo) con un inquietante crescendo di toni e anche di azioni contro la Chiesa e la sua dottrina, pone la domanda su dove trovare nella nostra storia la sorgente di questo veleno. La risposta è ovvia: proprio in quello spirito anticattolico di cui era intessuta l’ideologia e la prassi politica delle élites liberal-giacobine che hanno realizzato la cosiddetta unità italiana» (pag. 49).

Omar Ebrahime

http://www.totustuus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=3444

venerdì 7 maggio 2010

Risorgimento, unità che schiaccia l’identità, di Roberto Brusadelli

Un breve saggio di Giuseppe Brienza sulla formazione dello Stato italiano

di Roberto Brusadelli
in "la Padania", Quotidiano del Nord, Anno XIV, Milano 7 maggio 2010, p. 20


«La Lombardia austriaca che occupava un’ampia porzione del Ducato di Milano, a ridosso dei fatti di radicamento delle istituzioni dell’assolutismo, risultava ancora “costellazione di poteri locali a radice cittadina dotati di autonomia politica, che operano in un rapporto dialettico con gli uffici periferici dello Stato (ciò che consente loro di mantenere il controllo dei loro territori storici).” Anche l’Emilia dei Ducati (Parma e Piacenza) si presentava, alla vigilia dell’accentramento risorgimentale, “espressione di società cittadine storicamente parcellizzate che si erano fatte Stato in epoca postmedievale, conservando istituzioni, tradizioni amministrative, ambiti territoriali e civici fondati nell’età delle libertà comunali.”».
In Unità senza identità (edizioni Solfanelli, pagine 71, euro 7) Giuseppe Brienza, giornalista pubblicista e dottore di ricerca presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, allievo tra gi altri di Gianfranco Miglio, autore di una cinquantina di saggi scientifici e di vari volumi, dimostra la tesi di fondo secondo cui «l’Unità Piemontese, ben lungi da essere stata una unificazione, abbia invece prevaricato il pluralismo dei poteri istituzionali e la ricchezza delle prassi amministrative pre-unitarie».
Brienza non sposa in toto le tesi della storiografia cosiddetta “revisionista”: mette in evidenza, nel capitoletto Alcune “luci” nell’impianto amministrativo italiano dopo l’Unità, rispettivamente: a) il controllo e la “giustizia nell’amministrazione”; b) la pubblica istruzione; c) la razionalizzazione e la codificazione normativa; d) l’introduzione delle prime tecniche di gestione del personale e della “scienza dell’amministrazione”; e) un’amministrazione centrale “leggera” ed efficiente. Ma disegna un percorso storico e culturale che spiega il centralismo del nuovo Stato unitario sulla base, da un lato, della derivazione della tradizione anche amministrativa risorgimentale dal modello rivoluzionario francese e, dall’atro lato, dall’intransigenza laicista che – con l’appoggio di forze anche internazionali e specialmente dell’Inghilterra anti-papista – portò il liberalismo e il democraticismo dell’epoca a contrastare la tradizionale funzione civile oltre che spirituale della Chiesa e del Papato.
Conclude in proposito l’Autore: «Oggi residua quella nazionalità spontanea che — in una fase caratterizzata da un abbassamento del rilievo del momento territoriale, ed in cui il rapporto fra uomo e uomo è destinato a diventare di nuovo primario — va rivestita in modo adeguato. Infatti, il superamento dello Stato burocratico e accentratore non implica soltanto la demistificazione dell’idea di nazione affermatasi negli ultimi due secoli, ma anche la rinascita, o il rinvigorimento, delle nazionalità spontanee che lo Stato nazionale soffoca o riduce a strumenti ideologici al servizio del potere politico e, quindi, il ritorno di quegli autentici valori comunitari di cui l’ideologia nazionale si è appropriata distorcendoli».

Roberto Brusadelli Risorgimento, unità che schiaccia l’identità
Un breve saggio di Giuseppe Brienza sulla formazione dello Stato italiano

in "la Padania", Quotidiano del Nord, Anno XIV, Milano 7 maggio 2010, p. 20

mercoledì 7 aprile 2010

RECENSIONE di Francesco Mario Agnoli

Il libro di Giuseppe Brienza è smilzo, ma nelle sue sessantadue pagine di testo inquadra perfettamente il fenomeno Risorgimento, ricollegandolo alle origini volutamente scelte dalla piccola minoranza che ne fu protagonista: la Rivoluzione francese e l'ideologia giacobina. Radici frutto di una scelta ideologica e nient'affatto necessarie, anzi contraddittorie, al conseguimento di una unificazione politica conforme alle tradizioni e alle esigenze delle popolazioni italiane. Una scelta che ha cancellato l'idea universale capace di riunire il mondo di cui l'Italia, romana e papale, era stata portatrice per duemila anni, per sostituirla col piccolo regno di second'ordine ironicamente descritto da Dostoevskij come “soddisfatto della sua unità che non significa letteralmente nulla, un'unità meccanica e non spirituale (cioè non l'unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second'ordine”.
Tuttavia Giuseppe Brienza si affretta a precisare che le sue critiche al processo unitario italiano, così come quelle avanzate negli ultimi anni da storici di estrazione cattolica, non sono affatto ”finalizzate a delegittimare lo Stato italiano, nel quale tutti ormai ci riconosciamo”, ma, al contrario, a dargli finalmente quella piena e condivisa legittimazione che fino ad oggi gli è stata negata proprio (qui Brienza cita Ernesto Galli della Loggia) dalla “pretesa monopolistica da parte di una fazione (della fazione dei vincitori) di rappresentare essa sola l'idea di nazione, la scomunica degli avversari perdenti come nemici della nazione in funzione della propria auto legittimazione”.
Sono premesse importanti ma il merito principale di questo libro dedicato alla “Unità senza identità” è di avere, nelle pagine successive, preso le mosse da un punto di vista insolito, ponendo al centro dell'indagine storica “i poteri istituzionali e la pubblica amministrazione, come fenomeno organizzativo della vita dello Stato e della società” quali vengono realizzati ed estesi a tutti il Regno dalla legislazione piemontese del 1859 e da quella, già italiana, ma che sostanzialmente la riproduce, del 1865 (legge 20 marzo 1865 n, 2245 sulla unificazione amministrativa del Regno). E' stato attraverso l'imposizione del modello amministrativo piemontese, centralista e autoritario, derivato da quello rivoluzionario francese che il nuovo Stato (in realtà concepito come espansione della monarchia sabauda) ha nascosto i problemi dell'unificazione reale dietro il paravento di una unità istituzionale, che, in sostanza, li negava, perché ideologicamente connotata in senso “anti-identitario”. Difatti la distruzione di quell'idea universale introitata come componente essenziale del proprio Dna dalle popolazioni italiane non va qualificato come un imprevisto accidente dell'unificazione politica, ma, al contrario, come un esito volutamente perseguito, costituendo addirittura, secondo alcuni, la giustificazione dell'unità.
A questo proposito l'Autore mette a confronto il percorso risorgimentale e il suo esito con la diversa strada seguita in Germania e con le proposte, non recepite dai successori di Cavour, degli “autonomisti liberali” come Marco Minghetti e Stefano Jacini, ben più conformi alle plurisecolari tradizioni del Lombardo-Veneto (lo stesso Cavour era convinto della superiorità delle istituzioni amministrative lombarde su quelle piemontesi), dell'Emilia dei Ducati e dello Stato pontificio.
A questi difetti di origine o “ombre”, come le definisce l'Autore sia aggiungono le ingerenze britanniche e delle logge massoniche anglosassoni, meno brutalmente antireligiose di quelle latine, ma strettamente legate al Protestantesimo più anticattolico, che, difatti, intese e favorì l'unificazione della penisola, oltre che come conforme agli interessi dell'Impero britannico, come occasione per introdurre tardivamente in Italia la Riforma (non per nulla ancora oggi non pochi eredi della presuntuosa élite risorgimentalista lamentano la mancata affermazione in Italia della Riforma).
Nelle ultime pagine del libro Brienza, con l'attenzione sempre rivolta al sistema amministrativo del Regno, contrappone alle molte “ombre” dell'unità alcune “luci”: a) il controllo e la giustizia nell'amministrazione (leggi n.ri 3746, 3706 e 3707, tutte del 1859. riguardanti rispettivamente l'amministrazione centrale, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti); b) la pubblica istruzione (legge n. 3725/1859, passata alla storia come “legge Casati”); c) la razionalizzazione e la codificazione normativa (legge-delega n. 2248/1865); d) l'introduzione delle prime tecniche di gestione del personale e della scienza dell'amministrazione; e) un'amministrazione centrale “leggera” ed efficiente (caratteristica andata persa -anche se Brienza non lo dice - nel passaggio dal Regno alla Repubblica).
Infine il bilancio e l'auspicio: la ricchezza che residua, la nazionalità spontanea, che, sopravvissuta al tentativo dello Stato unitario di soffocarla, può costituire la base di “quella riconciliazione nazionale di cui, a partire dal secondo dopoguerra, si va ancora in cerca” e che deve includere anche le idee dei “vinti” del Risorgimento, che “non cessano di essere i contemporanei di chi non si accontenta del conformismo e della subcultura dominante della società di massa”.

Francesco Mario Agnoli

in Cultura & Identità
http://www.culturaeidentita.it
anno II - n. 3 (pp. 94-95)
Lugano (CH) gennaio-febbraio 2009

mercoledì 31 marzo 2010

RECENSIONE di Gianandrea de Antonellis

Siamo alle soglie delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, che culmineranno il 17 marzo 2011. È naturale aspettarsi manifestazioni e pubblicazioni celebrative, appunto (e per ciò stesso, scarsamente scientifiche). Comunque, anche se nessuno, di fatto, pone in serio pericolo l’esistenza dello Stato italiano, è più che lecito domandarsi se esso si sia formato nel migliore dei modi e se, in particolare, all’unità politica imposta dagli eventi bellici del 1860-1 sia seguita una reale unificazione delle popolazioni dei vari Stati preunitari. Giuseppe Brienza pubblica un breve, ma denso “vademecum” in cui analizza sinteticamente, ma con grande efficacia tutti i punti dubbi del processo del risorgimento o (come si preferisce dire attualmente) della rivoluzione italiana. L’autore pone una distinzione tra il concetto di Unità e quello di unificazione: «cercherò di evidenziare la profonda differenza fra unità (realizzata) ed unificazione (solo promessa) dell’Italia: con la prima espressione indicando la qualità di uno Stato non diviso da confini politici interni e di un popolo che forma un tutt’unico dal punto di vista delle sue istituzioni; con la seconda esprimendo l’effetto che determina, nelle persone di cui lo Stato si compone, la concordia nelle idee e nei sentimenti essenziali alla vita dello stesso Stato».
All’unità, certo non desiderata dalla maggioranza degli abitanti della penisola italiana, si pervenne grazie ad un lavoro di suggestione demagogica, di propaganda antipapale, antiborbonica ed antiaustriaca: la prima portò all’anticattolicesimo, la seconda pose le basi del problema del Mezzogiorno, la terza sfociò nei massacri dell’«inutile strage» della prima guerra mondiale. L’autore ripercorre i passaggi con cui venne fomentata la campagna demagogica. Un caso per tutti: il “falso” della frase di Metternich sull’Italia, che lo statista austriaco avrebbe definito «mera espressione geografica»; in realtà la vera frase era: «L’Italia è un nome geografico: la penisola italica è composta di Stati indipendenti». Niente spregiativo “mera”, quindi, nessuna volontà svalutativa, ma semplicemente una constatazione di fatto, tanto che lo stesso appellativo – “nome geografico” – era riferito nello stesso dispaccio alla Germania. Fu il quotidiano Il nazionale di Napoli, diretto da Silvio Spaventa che, un anno dopo, nella temperie rivoluzionaria del 1848, pubblicò una traduzione volontariamente falsa di quello che divenne un aforisma da tutti citato, segno del disprezzo che l’odiata Austria nutriva nei confronti di un’Italia da “liberare” a tutti i costi…

Gianandrea de Antonellis

in Radici Cristiane. Mensile di informazione e cultura
Anno VI - n. 53 - Brescia aprile 2010 - p. 94

domenica 14 marzo 2010

"L’Unità che ha diviso l’Italia", intervista di Maurizio Brunetto

Nel 2011, ricorrerà il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Un processo di unificazione, non privo però di “ombre”. Quali? Ce ne parla Giuseppe Brienza, giornalista e saggista cattolico, intervistato per noi.

Giuseppe Brienza, giornalista cattolico, saggista e corrispondente dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, ha pubblicato recentemente sul tema un saggio agile e ben documentato: Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani (Chieti 2009) che segue a I Gesuiti e la Rivoluzione italiana nel 1848. Come già una volta in passato, il dottor Brienza si è detto ben lieto di rispondere ad alcune domande per i lettori del nostro Settimanale.

MAURIZIO BRUNETTI: Dottor Brienza, crede che la distanza temporale che ci divide dall’evento, ne permetterà una rilettura non ideologicamente orientata?

GIUSEPPE BRIENZA: Effettivamente, quello che, tranne poche eccezioni, ci è stato tramandato come il mito fondante della nazione italiana, è stato per quasi un secolo e mezzo decantato come impresa gloriosa da non mettere minimamente in discussione. Al Risorgimento abbiamo veduto ispirarsi sia i partigiani del 1943-45, che con i loro drappi rossi rivendicavano una continuità ideale con i garibaldini, sia le Forze armate della Repubblica Sociale Italiana, che usarono Goffredo Mameli e l’iconografia risorgimentale per incitare la popolazione a resistere contro l’invasore straniero, sia, infine, il fronte social-comunista, che pose l’effige di Giuseppe Garibaldi nello stemma elettorale del 18 aprile del 1948.
Da qualche anno, però, la storiografia non si appiattisce più alla vulgata risorgimentista: gli studi sulla storia del processo unitario italiano hanno avuto una vera rinascita di interesse ed alcuni studiosi, soprattutto cattolici ma non solo (penso ad esempio a Ernesto Galli della Loggia o Emilio Gentile), hanno iniziato a riscuotere una consistente eco nel dibattito culturale italiano rimettendo in discussione studi ed interpretazioni. Dall’attuale rinascita storiografica è scaturita, quindi, una rivisitazione dell’intero quarantennio risorgimentale, che va all’incirca dal 1830 al 1870 e delle sue conseguenze — in pratica dell’intera storia italiana degli ultimi due secoli.

MAURIZIO BRUNETTI: Dunque il processo di unificazione ha avuto le sue ombre…

GIUSEPPE BRIENZA: …che non sono poche. Tutta una variegata pubblicistica – anche di valore – contro la ricorrente retorica delle celebrazioni fa bene a ricordare che l’unificazione del Regno d’Italia fu subita da diversi territori manu militari.
Ma, al di là delle vittime dell’espansionismo militare del piemontese Regno di Sardegna, penso soprattutto ai contadini meridionali "giustiziati" sommariamente per l’entrata in vigore di una iniqua legge marziale — fu l’intera compagine sociale italiana a subire una violenza diretta ad abbattere il proprio universo di tipo religioso e culturale. Molti protagonisti del "Risorgimento" aderivano a un progetto interamente ideologico: sostituire la cultura tradizionale e cattolica dei popoli della Penisola con un diverso abito di pensiero, improntato alle filosofie politiche scaturite dalla svolta antropologica del pensiero ateo e illuminista del settecento che scatenò la Rivoluzione in Francia del 1789. Questo spiega anche le leggi sabaude che portarono alla soppressione degli ordini religiosi e delle organizzazioni assistenziali cattoliche (le benemerite Opere Pie).
L’effetto più decisivo di tale operazione sarà la riduzione dell’influsso del cattolicesimo sulla cultura e sugli statuti dei popoli e delle comunità, nonché la sua rimozione, emarginazione o inquinamento — soprattutto attraverso la spiritualità "fredda" del giansenismo — nella vita pratica.

MAURIZIO BRUNETTI: Ma ci hanno insegnato che l’unità politica fu voluta dalla maggioranza del popolo…

GIUSEPPE BRIENZA: Guardi, il popolo meridionale, in particolare, era talmente contento dei piemontesi che esaltavano l’unità d’Italia (parlando in francese !), che da Torino furono mandati 120.000 soldati per reprimere le insorgenze. La storia dei vari plebisciti-farsa, poi, è ben nota agli studiosi più seri.
A fare il "Risorgimento" fu una minoranza piccola ma aggressiva, che negli anni precedenti non aveva disdegnato di ricorrere al terrorismo.

MAURIZIO BRUNETTI: Ritornando al suo saggio, le ripropongo il sottotitolo in forma interrogativa: “Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani”?

GIUSEPPE BRIENZA: La cancellazione "d’ufficio" di secolari organismi politico-amministrativi, l’appropriazione delle loro risorse finanziarie, getterà alle ortiche i loro ordinamenti e codici di leggi; esautorerà completamente — tranne forse i quadri militari più elevati — i loro dirigenti; destinerà all’esilio i loro sovrani, ancorché rassegnati e poco pericolosi.
L’estensione a tutta la Penisola di ordinamenti e sistemi giuridici uniformi — quelli sabaudi —, con la conseguente fine delle autonomie territoriali e delle forme di autogoverno, così come l’accentramento totale dell’Amministrazione, che avrà il suo simbolo nella figura del prefetto, saranno percepiti e accolti con grande difficoltà.
Che tutto ciò abbia causato un generale impoverimento, materiale e morale, dell’Italia sarà notato dal grande Fëdor Dostoevskij che, nel suo Diario di uno scrittore, annotò: «[...] per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale.»

MAURIZIO BRUNETTI
in Il Settimanale di Padre Pio
Rivista settimanale di formazione e di informazione cattolica dei Francescani dell’Immacolata
anno IX - n. 10 - Roma 14 marzo 2010 - pp. 30-31