mercoledì 7 aprile 2010

RECENSIONE di Francesco Mario Agnoli

Il libro di Giuseppe Brienza è smilzo, ma nelle sue sessantadue pagine di testo inquadra perfettamente il fenomeno Risorgimento, ricollegandolo alle origini volutamente scelte dalla piccola minoranza che ne fu protagonista: la Rivoluzione francese e l'ideologia giacobina. Radici frutto di una scelta ideologica e nient'affatto necessarie, anzi contraddittorie, al conseguimento di una unificazione politica conforme alle tradizioni e alle esigenze delle popolazioni italiane. Una scelta che ha cancellato l'idea universale capace di riunire il mondo di cui l'Italia, romana e papale, era stata portatrice per duemila anni, per sostituirla col piccolo regno di second'ordine ironicamente descritto da Dostoevskij come “soddisfatto della sua unità che non significa letteralmente nulla, un'unità meccanica e non spirituale (cioè non l'unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second'ordine”.
Tuttavia Giuseppe Brienza si affretta a precisare che le sue critiche al processo unitario italiano, così come quelle avanzate negli ultimi anni da storici di estrazione cattolica, non sono affatto ”finalizzate a delegittimare lo Stato italiano, nel quale tutti ormai ci riconosciamo”, ma, al contrario, a dargli finalmente quella piena e condivisa legittimazione che fino ad oggi gli è stata negata proprio (qui Brienza cita Ernesto Galli della Loggia) dalla “pretesa monopolistica da parte di una fazione (della fazione dei vincitori) di rappresentare essa sola l'idea di nazione, la scomunica degli avversari perdenti come nemici della nazione in funzione della propria auto legittimazione”.
Sono premesse importanti ma il merito principale di questo libro dedicato alla “Unità senza identità” è di avere, nelle pagine successive, preso le mosse da un punto di vista insolito, ponendo al centro dell'indagine storica “i poteri istituzionali e la pubblica amministrazione, come fenomeno organizzativo della vita dello Stato e della società” quali vengono realizzati ed estesi a tutti il Regno dalla legislazione piemontese del 1859 e da quella, già italiana, ma che sostanzialmente la riproduce, del 1865 (legge 20 marzo 1865 n, 2245 sulla unificazione amministrativa del Regno). E' stato attraverso l'imposizione del modello amministrativo piemontese, centralista e autoritario, derivato da quello rivoluzionario francese che il nuovo Stato (in realtà concepito come espansione della monarchia sabauda) ha nascosto i problemi dell'unificazione reale dietro il paravento di una unità istituzionale, che, in sostanza, li negava, perché ideologicamente connotata in senso “anti-identitario”. Difatti la distruzione di quell'idea universale introitata come componente essenziale del proprio Dna dalle popolazioni italiane non va qualificato come un imprevisto accidente dell'unificazione politica, ma, al contrario, come un esito volutamente perseguito, costituendo addirittura, secondo alcuni, la giustificazione dell'unità.
A questo proposito l'Autore mette a confronto il percorso risorgimentale e il suo esito con la diversa strada seguita in Germania e con le proposte, non recepite dai successori di Cavour, degli “autonomisti liberali” come Marco Minghetti e Stefano Jacini, ben più conformi alle plurisecolari tradizioni del Lombardo-Veneto (lo stesso Cavour era convinto della superiorità delle istituzioni amministrative lombarde su quelle piemontesi), dell'Emilia dei Ducati e dello Stato pontificio.
A questi difetti di origine o “ombre”, come le definisce l'Autore sia aggiungono le ingerenze britanniche e delle logge massoniche anglosassoni, meno brutalmente antireligiose di quelle latine, ma strettamente legate al Protestantesimo più anticattolico, che, difatti, intese e favorì l'unificazione della penisola, oltre che come conforme agli interessi dell'Impero britannico, come occasione per introdurre tardivamente in Italia la Riforma (non per nulla ancora oggi non pochi eredi della presuntuosa élite risorgimentalista lamentano la mancata affermazione in Italia della Riforma).
Nelle ultime pagine del libro Brienza, con l'attenzione sempre rivolta al sistema amministrativo del Regno, contrappone alle molte “ombre” dell'unità alcune “luci”: a) il controllo e la giustizia nell'amministrazione (leggi n.ri 3746, 3706 e 3707, tutte del 1859. riguardanti rispettivamente l'amministrazione centrale, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti); b) la pubblica istruzione (legge n. 3725/1859, passata alla storia come “legge Casati”); c) la razionalizzazione e la codificazione normativa (legge-delega n. 2248/1865); d) l'introduzione delle prime tecniche di gestione del personale e della scienza dell'amministrazione; e) un'amministrazione centrale “leggera” ed efficiente (caratteristica andata persa -anche se Brienza non lo dice - nel passaggio dal Regno alla Repubblica).
Infine il bilancio e l'auspicio: la ricchezza che residua, la nazionalità spontanea, che, sopravvissuta al tentativo dello Stato unitario di soffocarla, può costituire la base di “quella riconciliazione nazionale di cui, a partire dal secondo dopoguerra, si va ancora in cerca” e che deve includere anche le idee dei “vinti” del Risorgimento, che “non cessano di essere i contemporanei di chi non si accontenta del conformismo e della subcultura dominante della società di massa”.

Francesco Mario Agnoli

in Cultura & Identità
http://www.culturaeidentita.it
anno II - n. 3 (pp. 94-95)
Lugano (CH) gennaio-febbraio 2009

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